A dispetto dalle pie illusioni di molti operatori del settore, la moda italiana non è immune alla crisi economica. Anzi, la debolezza dei consumi erode anche le posizioni più consolidate del made in Italy sui mercati internazionali. E costringe più di una griffe ad ammainare la bandiera.
Ne sa qualcosa il gruppo Versace, che in Giappone è stato messo con le spalle al muro dal crollo dei consumi dei beni di lusso. Da qui la decisione – rivelata ieri dal Nikkei, il quotidiano economico di Tokyo – di chiudere le tre residue boutique (due nella capitale e una a Osaka) che facevano capo alla Versace Japan Co. Smobilitato anche l’ufficio delle pubbliche relazioni, che include quanto resta delle divisioni della sede centrale, chiusa a maggio. Dalla maison della Medusa fanno però notare che non si tratta di un addio ma solo di un «abbandono temporaneo». Resta il fatto che, dopo 28 anni, Versace non ha più boutique di proprietà nel Sol Levante. «Il Giappone è un mercato importante, quindi speriamo di tornare l’anno prossimo aprendo dei negozi o attraverso i grossisti», ha detto la società al Nikkei. «La scelta di rinunciare temporaneamente a tre boutique in Giappone non intacca minimamente le strategie di sviluppo del brand», ha poi precisato ieri un portavoce del gruppo. In questo quadro, Versace «ha dato inizio al contempo alla ricerca di nuove location coerenti con il posizionamento del brand, nonché forme di presenza sul mercato giapponese anche attraverso nuovi canali di distribuzione». La Versace Japan Co è stata costituita nel 1981 e negli anni Ottanta ha vissuto un vero exploit, prima di perdere progressivamente terreno. Nel 2008 Versace ha registrato ricavi per 1,6 miliardi di yen (poco più di 12 milioni di euro al cambio attuale) contro i 4,1 miliardi di yen del 2005, in base alle proiezioni della società di consulenza Teikoku Data Bank, riportate dall’Ansa. Qualche anno fa la società aveva proceduto a liquidare anche tutte le attività all’ingrosso.
A dicembre, peraltro, anche Louis Vuitton (-20% le vendite in Giappone nel primo semestre) ha rinunciato al suo flagship di Ginza, il quartiere dello shopping di Tokyo. Il trend non è promettente per nessuno: il business dei beni di lusso (abbigliamento, borse, scarpe, etc.) è calato del 10% nel 2008 rispetto al 2007, mentre quest’anno a poco più di 990 miliardi di yen, la metà dei livelli del 2006. In compenso, a Tokyo stanno conquistando terreno la moda più economica, l’americana Forever 21 e la svedese H&M.
Nella strategia del nuovo amministratore delegato di Versace, Giangiacomo Ferraris, comunque, i mercati asiatici restano «in ogni caso molto ben presidiati, attraverso la rete di 27 negozi in Cina aperti nell’ultimo triennio, ulteriormente rafforzata dall’imminente inaugurazione del negozio flagship a Mumbai, che si aggiunge a quelli recentemente aperti a Dubai, Macao e Kuala Lumpur».
Intanto, se Versace lascia il Giappone in attesa di riorganizzarsi, Prada è alla ricerca di nuovi soci e di mezzi freschi, dopo che la quotazione a Piazza Affari è stata più volte rinviata. L’ipotesi che circola prospetta l’ingresso di nuovi azionisti, che potrebbero acquisire una quota del 20% in seguito a un aumento di capitale. Contatti preliminari, secondo l’agenzia Radiocor, sono avvenuti con investitori e fondi sovrani, ma al momento l’ad e azionista di controllo Patrizio Bertelli non avrebbe ancora affidato alcun mandato. La società ha però smentito «trattative e incontri». Prima dell’estate Prada ha raggiunto un accordo di riscadenziamento del debito, per cui «la società non avrebbe necessità di mezzi freschi», osservava ieri un portavoce. Il gruppo è piuttosto esposto sul piano finanziario. A fine 2008 la Prada Bv, la capofila olandese del gruppo, aveva un debito netto consolidato di 1,175 miliardi di euro, mentre più del 70% della Prada spa (la holding operativa) è in pegno alle banche. A differenza di Versace, il gruppo di Bertelli e Miuccia Prada ha difeso abbastanza bene i ricavi, ma ha dovuto cedere sul piano della redditività: nel 2008 il margine operativo lordo è calato del 10,6% a 282 milioni, risentendo dell’effetto dei cambi e degli sforzi per il rafforzamento del canale retail.