5. Lassiatemi cantare, korra chitara imano
I giapponesi amano l’Italia, lo sapete. Un’Italia che non esiste, chiaro, che è una specie di Napoli da cartolina dove tutti vestono Armani, sorridono felici, sanno cantare, sono brillanti, fascinosi, belli, educati. Poi normale che pure a loro tocchi un minimo di shock culturale, quando vengono a trovarci. L’amore per l’Italia lo vedi in Giappone riflesso in mille cose.
Dal concetto molto vago di made in Italy applicato a quelle scarpe orrende da salaryman in vendita a Shinjuku, con dei nomi fantasiosi e dei tricolore al contrario, a mille ristoranti dai nomi farlocchi entrati nel mito. Parole a caso che generano fenomeni del web come i cartelli de La Pausa, Il Vigore, e tutto il resto.
E ok. Quello che non riesco a comprendere è come anche hotel, ristoranti di un certo livello, aziende di peso, nella maggior parte dei casi non sappiano metter giù un cartello in italiano senza infilarci duemila strafalcioni. Il punto è: hai speso quanto, mille euro per quella targa in metallo tutta elaborata in cui ti vanti perché il tuo locale esiste addirittura dal 2008, e non trovi l’equivalente in yen di cinquanta carte per rimediare un italiano lì attorno e fargli dare una rilettura a quello che hai scritto?
Ma la risposta è che probabilmente a loro non serve. Non importa quello che c’è scritto davvero, basta che sembri italiano. Che suoni italiano. È tutta una questione di suono, di suono e basta.
L’importante nella vita è arridere. Arridere disinibiti. Sempre.