5 cose che ancora non ho capito del Giappone

5 cose che ancora non ho capito del Giappone

di Alessandro “DocManhattan” Apreda

Una doverosa premessa. Amo il Giappone. È un paese che mi ha regalato tanto, che continua a sorprendermi e in cui torno sempre volentieri, come testimoniano probabilmente le 18 trasferte accumulate negli ultimi quindici anni. Un paese in cui ho assistito a slanci di generosità e altruismo letteralmente introvabili altrove. È con sincero affetto, perciò, che da tre lustri osservo incuriosito, affascinato, a volte anche un pelo sgomento, alcune sue idiosincrasie così particolari, quanto meno agli occhi del tipico gaijin calabrese di passaggio. Metti, io. Ecco dunque cinque aspetti del Giappone che continuo a trovare, uh, bizzarri.

1. Follow the leader (leader, leader)

Capisco che il rispetto della gerarchia, oltre che quello delle regole e più in generale un senso civico che noi non avremo mai, sono quello che rende il Giappone un paese così ordinato. Ma il fatto che sia sostanzialmente impossibile per chiunque faccia parte di una struttura con più di un (1) dipendente/impiegato assumere una decisione in autonomia resta ben strano.

Quando vidi per la prima volta le mitiche puntate di Turisti per Caso dedicate al Giappone, non immaginavo tre cose. Che in quel luogo dei sogni e del cuore ci sarei finito così tante volte, di lì a poco; che mi sarei ritrovato a lavorare per Patrizio e Syusy come responsabile editoriale della loro rivista; che quella storia della scala gerarchica da risalire ogni volta che chiedi qualcosa a qualche società/ente/museo/negozio/club della pinella fosse vera. Nel senso di sempre vera.

Ma ormai so come funziona. Se devo domandare qualcosa, durante un tour, nel senso che sono proprio costretto a farlo, sono psicologicamente pronto, mi metto comodo. So che al primo “Chotto matte, kudasai” (“Un attimino, per piacere…”), di attimini ne seguiranno tanti, in un domino di telefonate, attese, altre telefonate, altre attese, finché non si arriverà all’ultimo gradino, quello che non può chiamare nessun altro e quindi è costretto a inventarsi una risposta. Qualunque essa sia.

Un effetto secondario di questo fenomeno? Provate a portare a casa una riunione di lavoro con i vertici di un’azienda nipponica, se si sta parlando in inglese e l’unico che padroneggia la lingua è un assistente dello stimatissimo e attempato capo, e quindi è costretto a restare zitto per tutto il tempo. C’è della gerarchia qui, uè, giovine. Muto.

2. O il Borneo o l’Alaska

I giapponesi hanno lo stesso rapporto con l’aria condizionata di molti statunitensi. Un rapporto riassumibile nel principio SPARATUTTOALMASSIMO come se non ci fosse un ashita. Aggiungi che in città come Tokyo fa, a seconda del periodo, molto freddo o un caldo talmente umido che ci nuoti dentro, e il risultato è il motivo per cui hanno sostanzialmente bisogno di tutte quelle centrali nucleari. Per far andare treni e condizionatori (e alimentare l’esercito di Gundam funzionanti che il Giappone sta creando di nascosto, a parte quello di facciata di Yokohama. Certo).

D’inverno, l’interno di negozi, taxi, santo-cielo pure gli ascensori, rasenta temperature equatoriali e i sedili riscaldati della metropolitana provocano disturbi gastrointestinali e altre faccende spiacevoli, per incentivare surrettiziamente il business delle farmacie. D’estate, o il microclima di quegli stessi locali viene ricondotto a 2 gradi centigradi, o niente.

L’asciugamanino che chi vive in Giappone porta al collo durante l’estate non serve solo per il sudore. È in realtà una sciarpa di spugna che protegge dalla ghigliottinata glaciale in attesa ogni volta che entri da qualche parte. Ce l’hai fatta, sei nel ristorante, l’aria condizionata da cella frigorifera all’ingresso non ti ha steso. Ora devi solo sopravvivere all’accoppiata ramen bollente e bicchiere d’acqua obbligatoriamente col ghiaccio dentro. Buona fortuna.

3. Ultraoccupazione

Il Giappone è un paese che vive aggrappato con le unghie a un consumismo feroce, che macina qualsiasi cosa, e lo fa con un fretta del diavolo. Centoventisei milioni di abitanti che comprano tanto, di tutto, in continuazione, in un sistema economico che non conosce disoccupazione. E se la disoccupazione in Giappone “non esiste”, è perché per ogni lavoro ci sono il triplo delle persone effettivamente necessarie. A volte anche il decuplo. No, non è una battuta.

Sono i tre commessi dietro la cassa di un negozio, uno dei quali ha l’unica mansione di mettere il pezzettino di nastro adesivo sulle borsine degli acquisti (la qual cosa è obbligatoria, e se avete con voi già altre buste, al massimo verrà tutto incapsulato in un’altra busta più grande. Ma va fatto. Vogliamo togliergli il lavoro a quest’uomo? E allora).

Sono i quattordici operai attorno a un cantiere, tre dei quali effettivamente stanno lavorando al problema, sei dirigono il traffico, tre supervisionano le operazioni, due supervisionano i supervisori precedenti.

Sono gli uomini che reggono per tutto il giorno un cartello per una deviazione di un percorso pedonale davanti a un convention center. È diventata negli anni una mia gag di repertorio: “Cosa fa tuo padre?”, “Insegna”. “Ah, è un professore?”, “No, l’insegna”.

4. Quel cacchio di pachinko

Ora, per carità. Personalmente non mi piace nessun gioco d’azzardo, ma nello specifico tendo a non avere grande simpatia per quelli gestiti dal crimine organizzato, come in effetti il pachinko. Quello che però proprio non capisco di questi luoghi di perdizione non è che ci sia chi va a giocarsici la pensione o mezzo stipendio, come Marge nella puntata dei Simpson sulla ludopatia da casinò. È proprio come si faccia a sopravvivere per più di mezzo minuto in quei posti infernali, senza, beh, dare di matto.

Quell’insieme di luci sparate, decibel da prima fila di un concerto di metallo norvegese, dense cortine di fumo passivo. Qualcosa di psichedelico nel senso letterale del termine: ti scassa l’anima, ti rapisce la testa e ti trasforma in un essere che maneggia palline di metallo. Spingitori di palline! Ma come diciamo sempre con Tommaso, se chiedete a un giapponese, vi dirà che è tutta colpa dei coreani.

5. Lassiatemi cantare, korra chitara imano

I giapponesi amano l’Italia, lo sapete. Un’Italia che non esiste, chiaro, che è una specie di Napoli da cartolina dove tutti vestono Armani, sorridono felici, sanno cantare, sono brillanti, fascinosi, belli, educati. Poi normale che pure a loro tocchi un minimo di shock culturale, quando vengono a trovarci. L’amore per l’Italia lo vedi in Giappone riflesso in mille cose.

Dal concetto molto vago di made in Italy applicato a quelle scarpe orrende da salaryman in vendita a Shinjuku, con dei nomi fantasiosi e dei tricolore al contrario, a mille ristoranti dai nomi farlocchi entrati nel mito. Parole a caso che generano fenomeni del web come i cartelli de La Pausa, Il Vigore, e tutto il resto.

E ok. Quello che non riesco a comprendere è come anche hotel, ristoranti di un certo livello, aziende di peso, nella maggior parte dei casi non sappiano metter giù un cartello in italiano senza infilarci duemila strafalcioni. Il punto è: hai speso quanto, mille euro per quella targa in metallo tutta elaborata in cui ti vanti perché il tuo locale esiste addirittura dal 2008, e non trovi l’equivalente in yen di cinquanta carte per rimediare un italiano lì attorno e fargli dare una rilettura a quello che hai scritto?

Ma la risposta è che probabilmente a loro non serve. Non importa quello che c’è scritto davvero, basta che sembri italiano. Che suoni italiano. È tutta una questione di suono, di suono e basta.

L’importante nella vita è arridere. Arridere disinibiti. Sempre.

VIDEO

Se vi interessa il tema degli errori, Tommaso ha realizzato un video veramente esilarante qualche mese fa, una raccolta di anni di strafalcioni in italiano da tutto il Giappone

Alessandro DocManhattan Apreda
Alessandro DocManhattan Apreda
Alessandro Apreda, o DocManhattan, il nick con cui scrive cose sul web. Responsabile editoriale in passato di varie riviste, da PlayGeneration a Turisti per Caso, Digital Japan e Horror Mania, ha collaborato con IGN, Multiplayer, ScreenWeek, MTV, RAI, Paramount. Autore di fumetti e libri (come Tokyo - La Guida Nerd), cura dal 2007 il blog L’Antro Atomico del Dr. Manhattan antro.it. Ha una passione inestinguibile per il miso ramen. Lo trovate anche su Instagram