“Aneddoto per aneddoto, una delle prime volte, un signore rifiutò premendomi con cortesia una mano sulla spalla per farmi restare seduto dov’ero.”
Ma sono anche cose più piccole, meno drammatiche, ma comunque poco belle: il fatto che nessuno si alzi per cedere il posto a un anziano, ad esempio. O che in quel silenzio implacabile e in quella corsa inarrestabile, il modo più diffuso per farsi largo e scendere, quando arriva la tua stazione, sia spingere gli altri. In modo brusco, netto, senza mai guardare in faccia chi stai spingendo. Perché non conta. Conta che devi scendere, quella è la tua stazione, lì c’è l’altro treno, o la bici che porterà a casa te, la tua ventiquattrore, i tuoi capelli curati, le tue scarpe brutte da impiegato. Dice: ma è così anche altrove, in qualsiasi metro. Vero, ma qui fa molto più contrasto. È come se la perfezione formale, l’educazione estrema con cui tutto scorre al di fuori di quei serpentoni di metallo, sulla “metro” (in senso lato, a indicare tutto il trasporto ferroviario metropolitano, al livello del suolo e sottoterra) si sospenda, venga messo da parte. E del resto, quello è un mondo altro, diverso, con i suoi locali, il suo miliardo di micro-ristorantini, i suoi negozi, le sue librerie. Un mondo fatto su misura di salaryman, tanto che nei treni non è contemplato che qualcuno si porti dietro un valigione di troppo da turista. O un passeggino per bambini. E allora finisce che c’ha pure le sue regole, quel mondo lì. Belle, brutte, ordinate e spietate. Sue.
E quella cosa del cedere il posto a chi ne ha più titolo e bisogno è talmente poco frequente, che quando ti trovi a farlo tu, si innescano a volte delle situazioni da sitcom. Ho faticato un numero di volte tendente all’infinito per far sedere al mio posto delle vecchiette ultraottantenni. In un caso, per convincere la signora – peraltro con evidenti problemi di deambulazione – a sedersi, ho dovuto spiegarle, in un misto di giapponese (poco), inglese (inutile) e gesti (già meglio) che quella successiva sarebbe stata la mia fermata. Si segga, la prego, io tanto scendo. Ha accettato, ringraziandomi duecento volte, solo quando mi ha visto scendere davvero. Non era la mia fermata, ero solo a metà percorso e ho dovuto prendere un altro treno. Con gli uomini ho imparato invece a non farlo. Anche davanti a un ultracentenario, questa cosa del posto ceduto viene vista suppergiù come un insulto. Credo, eh. Parlo per esperienza personale. Ohè, giovane gaijin con meno capelli di me, va’ che ce la faccio. Come ti permetti. Aneddoto per aneddoto, una delle prime volte, un signore rifiutò premendomi con cortesia una mano sulla spalla per farmi restare seduto dov’ero. Con cortesia e una pressione esercitata in bar equivalente a quella di una pressa idraulica. Aveva fatto le elementari a Hokuto, dice.